Paradisi fiscali e governi predoni
- Antonino Spoto
- 23 apr 2017
- Tempo di lettura: 3 min

L’ondata di indignazione sui paradisi fiscali? Un trionfo per la propaganda della classe dirigente predona.
Da qualche tempo è pieno di servizi televisivi, articoli di riviste e giornali, perfino spettacoli di comici e cabarettisti, sui paradisi fiscali. La gente è arrabbiata. Contro alcuni paesi europei, come Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Cipro. E contro alcune grandi imprese multinazionali, come Apple, Google e Starbucks.
Giornali e TV raccontano che le imprese sfruttano i regimi fiscali di vari paesi per pagare meno tasse, collocando i guadagni sul marchio in una società lussemburghese, i guadagni sulle azioni in una società Olandese o anche semplicemente concentrando tutti i propri affari europei in una società irlandese.
Lo fanno con un taglio scandalistico, volto proprio a suscitare indignazione. Del resto le grandi imprese sono bersagli facili. Il popolo è sempre disposto a credere che le multinazionali, specie se americane, siano i cattivi della storia, i cattivi di ogni storia. E quando l’Antitrust europeo dice che Apple non ha pagato 13 miliardi di tasse, la gente s’indigna. E si mobilita. A sostegno della burocrazia UE e dei governi spendaccioni, a sostegno della classe dirigente predona: politici e burocrati che delle tasse hanno un gran bisogno, perché dalle tasse - dallo Stato grasso e avido - traggono potere e laute prebende.
Ma la storia ha un altro lato, uno che la propaganda non racconta.

Chi beneficia dei risparmi fiscali delle imprese? Forse nell'immediato le imprese stesse (azionisti e management), ma nel lungo termine il beneficio finisce al consumatore, sotto forma di prezzi più bassi.
Le imprese sono in concorrenza tra loro; cercano incessantemente di sottrarsi le quote di mercato. E per farlo c’è un solo modo: offrire al consumatore il miglior rapporto qualità/prezzo. Ecco perché le imprese si affannano a ridurre i costi; per offrire al consumatore prezzi competitivi rispetto a quelli dei concorrenti. E le tasse, per le imprese, sono semplicemente un costo, uno come gli altri.
La concorrenza è importante. Induce le imprese a cercare sempre di innovare, migliorare il prodotto e abbassare i prezzi, cioè a diventare più efficienti a vantaggio del consumatore.
E lo sa bene la UE. Che infatti ha una dettagliata normativa per la tutela della concorrenza, che proibisce alla imprese di fare accordi per spartirsi il mercato e concordare i prezzi. Però la sola concorrenza che piace alla UE (e ai governi europei) è quella tra le imprese; quella che non gli piace, quella di cui hanno orrore, che combattono con tutte le loro forze è la concorrenza fiscale tra Stati.

E sì, perché il concetto di concorrenza vale anche per gli Stati. Ogni Stato offre un prodotto (il complesso dei servizi pubblici: dalla sicurezza alle infrastrutture) ad un certo prezzo (l’ammontare delle tasse). E in un mondo sempre più mobile e globalizzato gli investitori, le imprese e ormai anche le persone fisiche scelgono qual è lo Stato che offre il miglior rapporto qualità/prezzo. Ci sono quelli che scelgono uno Stato con poche tasse e pochi servizi e quelli che optano per uno con molte tasse e molti servizi. Ma difficile che ce ne siano che preferiscono uno Stato con molte tasse e pochi servizi.
Ed ecco perché governi, burocrati e classi dirigenti predone vedono la concorrenza fiscale come il fumo negli occhi: li costringerebbe a fare come le imprese, a cercare ogni giorno di migliorare i servizi (il prodotto) e ridurre il prezzo (le tasse). E che fine farebbero potere e laute prebende?
Certo, ci sono casi estremi, distorsioni da combattere. Ma non facciamoci ingannare dai predoni che dallo Stato grasso e avido traggono ogni vantaggio. In generale a noi comuni mortali la concorrenza fiscale tra Stati conviene.
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