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Olio di palma: la miglior disinformazione dai tempi di Nerone e i cristiani

  • Immagine del redattore: Antonino Spoto
    Antonino Spoto
  • 19 mar 2017
  • Tempo di lettura: 9 min

Uno spettro si aggira per l’Europa, specialmente per l’Italia. È rossiccio (almeno allo stato naturale), ma non è lo spettro del comunismo; è - più modestamente - quello dell’olio di palma.

Un popolo in preda alla paranoia

Tornato in Italia dopo qualche tempo, ho trovato un paese vittima di una psicosi da avvelenamento, una nazione nella morsa della paranoia alimentare, un popolo unito (ahimè, solo) dal sospetto verso il cibo.

Un italiano su cinque pensa di soffrire di qualche allergia o intolleranza alimentare (anche a causa dei tanti balordi che giocano a fare il medico alternativo), mentre coloro che ne soffrono davvero sono uno su venti (Federazione Italiana dei Medici).

Da tempo è scoppiata la moda degli alimenti senza glutine. Già venduti in farmacia per i malati veri, hanno ormai conquistato gli scaffali dei supermercati, comprati da gente che semplicemente pensa che siano più salutari di quelli normali e che si espone in tal modo a rischi reali per la salute (i prodotti senza glutine, spesso contenenti maggiori quantità di zuccheri e grassi, possono indurre un aumento di peso e predisporre a obesità, sindrome metabolica e diabete; Norelle R. Reilly, Columbia University Medical Center, New York, NY).

Una delle vittime più recenti della psicosi è l’olio di palma. Catene di supermercati hanno bandito la vendita dei prodotti che lo contengono. Molte industrie alimentari hanno deciso di sfruttare la moda, commercializzando prodotti che urlano dalle etichette: “senza olio di palma”. Madri ansiose scrutano gli scaffali, scartando i prodotti che non sono immuni dal terribile veleno.

Vivo in un paese tropicale. Qui l’olio di palma – che si chiama azeite de dendê – è un componente base della cucina nordestina; indispensabile per fare piatti deliziosi, come il vatapá, la moqueca, l’acarajé. Lo usano da secoli; e l’hanno ereditato – attraverso gli schiavi neri – dalla cucina africana, dove è usato da millenni. Le nonne lo danno ai bambini perché fa bene. È risaputo che è ricco di beta-carotene, vitamina E e K e quindi reca i benefici che in Europa in genere sono associati alle carote.

Ovviamente la fobia italiana mi incuriosisce. Possibile che sia dannoso per la salute? Decido di approfondire. Scopro che vi sono due questioni: una seria, l’altra non proprio.

La storia comincia con un problema ambientale

Un tempo usato poco nell’industria alimentare occidentale, l’olio di palma ha conquistato grandi quote di mercato in sostituzione degli oli vegetali contenenti acidi grassi trans dichiarati dannosi per la salute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2003 (e a seguire dalla Food and Drug Administration statunitense e dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare). Nell’ultimo ventennio l’aumento della produzione mondiale, concentrato principalmente in Malesia e Indonesia, è stato esponenziale; anche in conseguenza del fatto che l’olio di palma ha una resa maggiore e un costo molto più basso di quello degli altri oli vegetali usati nell’industria (girasole, colza, arachide, soia).

A partire dal 2007 Greenpeace comincia una campagna sui legami tra l’aumento della produzione dell’olio di palma e la deforestazione in Indonesia. Non si tratta di una campagna contro l’olio di palma; si tratta di una campagna contro grosse aziende (come Unilever e Nestlé) accusate di favorire, direttamente o indirettamente, la deforestazione. La questione è seria e giustamente pone il problema all’attenzione dell’opinione pubblica. Ma si tratta di una questione ambientale.

Come è perché si trasforma in una questione di salute? Un corto circuito tra informazione-propaganda, politica populista e isteria di massa.

Attivisti-propagandisti

In Italia la campagna sull’olio di palma inizialmente è abbracciata da due riviste online – Gift (Great Italian Food Trade) e il Fatto Alimentare - riconducibili alle stesse persone: Dario Dongo e Roberto La Pira. A differenza di quella di Greenpeace, però, la campagna delle due riviste italiane non è una campagna per la coltivazione ecosostenibile; è contro l’olio di palma in sé.

Inizialmente privo di risonanza, il battage comincia a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica quando i due spostano gradualmente il focus dalla questione ambientale a quella dei rischi per la salute. Ci sono risultanze scientifiche in tal senso? No. Solo l’ovvia constatazione che l’olio di palma è ricco di grassi saturi (ma meno del burro) e, quindi, un consumo eccessivo può generare problemi di colesterolo. Ci sono risultanze in senso opposto? Sì. Uno studio del 2013 dei ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano conclude che non ci sono elementi per associare l’olio di palma a fattori di rischio per la salute diversi da quelli degli altri grassi (salva la comprovata minore pericolosità rispetto ai grassi trans). A conclusioni analoghe giunge un approfondimento del 2014 che coinvolge anche ricercatori dell’università di Parma, dell’Università di Milano, del Policlinico di Milano e dell’università Bocconi.

Ma il battage dei propagandisti non demorde; punta sulla solfa – abusata, ma di facile presa sul pubblico – della ricerca venduta all’industria.

Come creare un’isteria di massa

Un evento apparentemente insignificante segna una svolta nella vicenda. A dicembre del 2014 entra in vigore una nuova normativa europea che obbliga i produttori a sostituire il più generico “grassi vegetali aggiunti” con l’indicazione precisa della tipologia di grasso. Diviene palese che l’olio di palma è ubiquo. È usato da quasi tutte le grandi industrie alimentari ed è presente in una grande quantità di prodotti.

Ancora una volta gli attivisti riescono a spostare il fuoco. Adesso si dà per scontato che l’olio di palma faccia male e si monta uno scandalo sull’idea che l’industria ne abbia fatto un uso occulto; si presenta il tutto come una cospirazione degli avidi capitalisti. L’argomento conquista l’opinione pubblica: se ti dicono che ti hanno avvelenato di nascosto, è ovvio che ti preoccupi e ti arrabbi. Gli attivisti ne approfittano per lanciare una petizione contro l’uso dell’olio di palma. La petizione ha successo; raccoglie 177.000 sottoscrittori.

Ormai è chiaro che la campagna ha funzionato. Un ampio pubblico è stato portato a credere che l’olio di palma sia un male, anzi “il” male. L’isteria di massa è stata creata.

Comincia la corsa al carro del vincitore. I programmi TV di finta informazione mettono su il solito spettacolino scandalistico con gente che litiga (per esempio La Gabbia del 19/4/2015). Le catene di supermercati e le industrie alimentari decidono di seguire il vento; molte annunciano il bando dell’olio di palma. Politici populisti si sgolano per cogliere l’opportunità di presentarsi come difensori della salute pubblica.

Gli autori della campagna gongolano. Proclamano con orgoglio che l’Italia è il primo paese “palm oil free” al mondo.

Complesse questioni scientifiche

A febbraio del 2016 l’Istituto Superiore della Sanità su richiesta del Ministero della salute emette un parere in cui conclude: “Non ci sono evidenze dirette nella letteratura scientifica che l'olio di palma, come fonte di acidi grassi saturi, abbia un effetto diverso sul rischio cardiovascolare rispetto agli altri grassi con simile composizione percentuale di grassi saturi e mono/poliinsaturi, quali, ad esempio, il burro”. Gli anti-palma si arrabbiano; tuonano contro l’informazione venduta e la ricerca manipolata.

È solo a maggio del 2016 che gli anti-palma sembrano ricevere un primo supporto dalla scienza, quando l’EFSA (European Food Safety Authority) emette un parere in cui l’olio di palma risulta correlato al rischio di cancro. E però il parere dell’EFSA è strano. Pare fatto apposta per associare la parola cancro all’olio di palma, ma a guardarci dentro è un’altra cosa. Dice che, se lavorato a più di 200 gradi l’olio di palma produce (come altri oli, ma in maggiori quantità) dei contaminanti (2-MCPD, 3-MCPD e glicidil esteri) che, somministrati in dosi massicce ai ratti, si sono dimostrati cancerogeni. Omette però di individuare le soglie di pericolosità (i contaminanti si chiamano così perché ne sono rilevate solo quantità minuscole) e non fornisce alcuna raccomandazione concreta alla Commissione (che aveva richiesto il parere). Ancora più strano è che la Commissione non ritenga di assumere alcun provvedimento: neppure l’obbligo di dichiarare la presenza e la quantità dei contaminanti nei prodotti contenenti oli lavorati.

Il mistero è spiegato dall’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) che in una nota relativa proprio al parere dell’EFSA spiega: “Le tre sostanze esaminate (2-MCPD, 3-MCPD e glicidil esteri degli acidi grassi) si sviluppano durante i processi di lavorazione di grassi e olii vegetali. Sono quindi presenti in molti grassi vegetali (anche in quelli di mais, arachidi, colza, girasole eccetera) e non solo nell'olio di palma Í…] Queste tre sostanze sono note per essere cancerogene in vitro ad altissime concentrazioni: ciò significa che in laboratorio, a concentrazioni difficilmente raggiungibili con la normale alimentazione, sono genotossiche, hanno cioè la capacità di mutare il patrimonio genetico della cellula. È bene però ricordare che molte altre sostanze alimentari rientrano nella stessa categoria di rischio (per esempio la caffeina, l'alcol, le aflatossine che a volte sono contenute in alcuni derivati dei cereali; per maggiori informazioni si rimanda alla classificazione IARC sul rischio cancerogeno. Perché queste sostanze non vengono vietate se sono cancerogene? La domanda è legittima, ma non tiene conto del fatto che sono moltissime in natura le sostanze potenzialmente cancerogene ad alte concentrazioni, anche nell'alimentazione. Il rischio è legato alla frequenza e quantità delle consumazioni: non è mai pari a zero, ma per un consumo normale non è neppure molto elevato e rientra in quello che gli epidemiologi considerano il rischio generale legato all'ambiente esterno e agli stili di vita”.

In altri termini lo studio dell’EFSA dice la verità, ma si tratta di una cosa ovvia, risaputa e di nessuna rilevanza pratica; l’equivalente di dire che, facendoti 10 litri al giorno di caffè per endovena per 20 anni, probabilmente ti becchi il cancro (in realtà muori prima di infarto, ma vabbé …). Però si presta ad essere usato dagli attivisti per agitare lo spauracchio del cancro.

A gennaio del 2017 l’International Journal of Food Sciences and Nutrition pubblica i risultati di un simposio in cui 24 scienziati italiani di più di 10 università e istituzioni di ricerca concordano che l’olio di palma non presenta rischi per la salute superiori a quelli degli altri alimenti contenenti grassi saturi.

Politici che avrebbero bruciato Galileo

Il colmo del ridicolo lo si raggiunge nel parlamento italiano.

All’inizio del 2017 l’associazione dei consumatori tedesca Stiftung Warentest pubblica un articolo in cui sostiene che il parere dell’EFSA può indurre i consumatori a conclusioni errate. Stiftung Warentest - ricorda l'articolo - analizza regolarmente i prodotti alimentari in relazione ai contaminanti da grassi, come per esempio la crema di nocciole. Mentre la Nutella ha evidenziato un livello molto basso di contaminazione di 3-MCPD e glicidil esteri, una crema senza olio di palma a base di olio di semi di girasole non ha superato il test, a causa di un alto livello di contaminazione. Questo esempio - conclude l'articolo tedesco - dimostra che gli esteri critici degli acidi grassi possono trovarsi in molti grassi vegetali raffinati. Non sono ancora completamente evitabili, ciononostante è possibile ridurli al minimo attraverso metodi di produzione ottimizzati e un'attenta selezione delle materie prime. Dunque - conclude - l'olio di palma non è cancerogeno di per sé. Una responsabilità che sta in capo ai produttori: l'olio di girasole raffinato in condizioni difficili può essere più pesantemente contaminato con grassi nocivi dell'olio di palma raffinato bene.

Apriti cielo! Il deputato Mirko Busto denuncia il complotto tedesco in parlamento. E già che c’è denuncia anche la Ferrero per aver fatto una pubblicità a favore dell’olio di palma ecosostenibile. Insomma, secondo l’esponente del secondo partito politico italiano - il Movimento 5 Stelle – la verità scientifica non si stabilisce nel libero dibattito tra ricercatori e esperti, bensì in parlamento tra i politici; i quali - già che ci sono - decidono anche quali pubblicità non possono essere fatte e quali cose non possono essere dette. L’ultima volta che si è sentito di una tale pretesa è stato ai tempi di Galileo; e pensavamo che fosse finita.

Un’amara conclusione

In conclusione, tutte le risultanze scientifiche concordano che l’olio di palma non comporta rischi per la salute cardiovascolari superiori e/o diversi da quelli di altri prodotti aventi un alto contenuto di grassi saturi, quali le carni, i formaggi, il burro; né comporta rischi cancerogeni superiori o diversi da quelli di un gran numero di sostanze alimentari di uso comune, che sono cancerogene solo in concentrazioni che non si verificano al di fuori delle condizioni di laboratorio.

Ma in Italia la scienza non vale. In Italia gli attivisti a partito preso e i politici populisti sono più forti della logica, della ragione e della verità.

* * *

La complessità della questione ambientale

E le questioni ambientali legate all’espansione della coltivazione dell’olio di palma? Quelle sono serie e sono ben documentate nei rapporti di Greenpeace.

In Malesia e soprattutto in Indonesia la deforestazione dovuta alle nuove coltivazioni è un problema grave, che sta compromettendo l’habitat di specie animali già in pericolo di estinzione, come l’orangutan. Ma l’obiettivo di Greenpeace non è il bando dell’olio di palma. È fermare la deforestazione, facendo sì che la coltivazione sia sempre e solo ecosostenibile.

Certo, nei casi più estremi Greenpeace ha promosso il boicottaggio di grandi aziende che non garantivano l’ecosostenibilità; ma non ha mai sostenuto il bando del prodotto in sé.

A differenza degli attivisti di provincia, Greenpeace sa, ad esempio, che in Indonesia ci sono oltre 2 milioni di persone che dipendono dall’industria dell’olio di palma; molte delle quali sono piccoli contadini che sarebbero ridotti alla fame da un bando mondiale sul prodotto.

Astenersi dal consumare l’olio di palma serve forse a far sentire bene (buono ed ecologico) l’italiano col SUV, ma non è una soluzione giusta, né sensata.

Nel paese dove vivo – il Brasile – mi capita di parlare della deforestazione dell’Amazzonia. La reazione dei locali, anche degli ambientalisti, è spesso del seguente tipo: “Voi occidentali avete distrutto le vostre foreste già da 2000 anni, nei vostri paesi coltivate ogni centimetro di terra disponibile e volete farci la lezione su come dobbiamo usare le nostre risorse naturali?”

Ho capito che non hanno tutti i torti. Ho capito che la questione è ben più complessa di come se la immaginano certi nostri attivisti. Che non possiamo chiedere agli indonesiani che rinuncino all’emancipazione dalla povertà che deriva dall’industria dell’olio di palma. Che la soluzione non è bandire l’olio di palma; è cooperare con loro per aiutarli, ad esempio, a intensificare la produzione sulle terre già coltivate, affinché possano crescere senza ricorrere ad ulteriori deforestazioni.

Insomma ho capito che anche la questione ambientale - vista dall’osservatorio dei paesi poveri - è assai più complessa e sfaccettata di quanto immagini la mamma italiana che al supermercato cerca i prodotti “palm oil free”.

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Nel poema di Ariosto Astolfo va sulla luna per recuperare il senno perduto di Orlando. La razionalità è il filo conduttore del blog, diario di idee e letture, in cui prendo spunto da questioni di cultura, società e costume, per segnalare quelli che mi sembrano vizi del pensiero, mancanze di raziocinio.

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