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Ero un ignorante che citava Feuerbach

  • Immagine del redattore: Antonino Spoto
    Antonino Spoto
  • 5 mar 2017
  • Tempo di lettura: 4 min

Sono nato nella terra del sofisma e del puntiglio, la Magna Grecia post-spagnolesca: la Sicilia.

Un posto dove la cultura era eminentemente parolaia; sinonimo di filosofia, letteratura, eloquenza.

Un luogo ove era ancora viva la tradizione degli antichi greci, che spacciava la chiacchiera per conoscenza, disdegnando l’osservazione del mondo e l’esperimento, come affari minori propri delle “genti meccaniche e di piccolo affare”.

Una paese dove a scuola la prova più importante era il tema: una composizione scritta in cui non aveva importanza la conoscenza dell’oggetto, bensì la capacità di sproloquiare su un argomento qualsiasi, mettendo in fila frasi ad effetto e in bello stile, col proposito di usare mille parole per dire ciò per cui dieci sarebbero state sufficienti.

Un terra ove la competenza accademica non era conoscenza delle cose, bensì citazione servile di chiacchiere di altri accademici, che a loro volta citavano servilmente chiacchiere di altri accademici, che a loro volta …

Una società dove il massimo della gratificazione per un uomo – appena dopo il comandare e il fottere – era il prevalere in una disputa verbale, trionfare in una gara di retorica e sofismi.

* * *

Il caso ha voluto che divenissi emigrante. Che mi imbattessi in altri lidi, in altre genti, in altri libri. Che imparassi, addirittura, a leggere in altre lingue.

Pian piano e a fatica mi sono reso conto che un uomo che non sa di termodinamica non è colto, anche se cita Feuerbach e Schopenhauer. Che la filosofia è una forma primitiva di conoscenza, praticata da uomini che brancolavano nel buio, prima dell’avvento della scienza. Che la letteratura può essere sublime, ma resta una forma di intrattenimento, come la telenovela e il videogame. Che l’eloquenza spesso è disgiunta dal sapere, anzi in molti casi serve a mascherarne la carenza.

* * *

Un libro che mi ha definitivamente aperto gli occhi sulla differenza tra cultura e chiacchiera è stato “Guns, Steel and Germs: A short history of everybody for the last 13,000 years” (in italiano: Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni) di Jared Diamond, 1997.

Il libro si propone di rispondere ad una questione annosa. Perché sono stati proprio e solo gli euro-asiatici a sviluppare società tecnologiche e a conquistare il resto del mondo? Il tema può interessare o meno, la tesi può essere più o meno condivisa, ma il metodo scientifico-interdisciplinare che lo caratterizza è stato decisamente una rivelazione per chi - come me - era abituato ad udire solo ciarle pseudo-scientifiche sull’imperialismo capitalista e simili amenità socio-politiche.

L’autore racconta dell’evoluzione della specie umana e delle ondate migratorie dell’Homo sapiens dall’Africa verso gli altri continenti, spiegando le tecniche di mappatura del DNA mitocondriale che consentono di tracciare i percorsi delle varie popolazioni preistoriche e stimarne l’epoca.

Narra dell’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento, avvenuta precocemente nel Medio Oriente e nell’Oriente estremo, tardivamente nel continente americano e praticamente mai nell’Africa sub-sahariana e nel continente australiano. Spiega come ciò sia dovuto alla diversa disponibilità di specie vegetali e animali selvatiche adatte all’addomesticamento; chiarisce, ad esempio, che grano e riso – specie esistenti rispettivamente in Anatolia e in Cina – erano a più alto rendimento e più adatte allo stoccaggio di quelle esistenti in altri continenti (ad esempio il mais) e quindi rappresentavano un vantaggio per l’inizio dell’agricoltura. Racconta come le specie animali disponibili in Eurasia (capre, buoi, cavalli, maiali) si prestassero all’addomesticamento, mentre quelle disponibili in altri continenti fossero non domesticabili (ad esempio la zebra nell’Africa sub-sahariana) o meno numerose e/o utili (ad esempio il lama nel continente americano).

Spiega come l’orientamento Est-Ovest del continente euro-asiatico – con relativa omogeneità di condizioni climatiche - abbia favorito la rapida diffusione delle tecniche agricole e d’allevamento, al contrario di quanto accaduto in Africa (ove le colture mediterranee non riuscirono ad oltrepassare la fascia sahariana) e in America (ove le colture azteche e maya restarono confinate in fasce climaticamente omogenee, non riuscendo a diffondersi lungo l’asse Nord-Sud del continente americano).

Racconta come all’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento si sia accompagnata l’evoluzione delle formazioni sociali umane, divenute sedentarie e passate attraverso stadi tipici di aggregazione crescente (villaggio, confederazione di villaggi, città-stato, nazione, impero). E come ciò abbia portato sia all’invenzione di tecnologie belliche più avanzate (le armi in acciaio, la cavalleria e i carri da guerra etc.), sia – e soprattutto - all’evoluzione di nuove malattie infettive, trasmesse all’uomo dagli animali domestici. Spiega come la co-evoluzione degli uomini e delle malattie infettive “da allevamento” abbia portato le popolazioni euro-asiatiche a sviluppare una relativa immunità e abbia poi – in epoca coloniale - funzionato da elemento decisivo per lo sterminio delle popolazioni native degli altri continenti.

Racconta di casi di inversione dello sviluppo tecnologico (Cina e Giappone nell’epoca di espansione del colonialismo europeo) o di collasso ecologico (l’Isola di Pasqua poco prima dell’arrivo dei primi europei) dai quali trarre insegnamenti per il futuro dell’umanità.

Insomma davvero la storia di tutti noi degli ultimi tredicimila anni. E il tutto con un abbondanza di particolari, un grado di approfondimento e una dovizia di spiegazioni fattuali e scientifiche che all’epoca mi resero concreto e chiarissimo il significato del detto romanesco: “le chiacchiere stanno a zero”.

Anni dopo scoprii che l’entusiasmo per quel libro non era stato solo mio. Aveva vinto il Pulitzer e numerosi altri premi, era diventato un classico tradotto in numerose lingue e il National Geographic ne aveva tratto un acclamato documentario.

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Nel poema di Ariosto Astolfo va sulla luna per recuperare il senno perduto di Orlando. La razionalità è il filo conduttore del blog, diario di idee e letture, in cui prendo spunto da questioni di cultura, società e costume, per segnalare quelli che mi sembrano vizi del pensiero, mancanze di raziocinio.

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