Le grandi marche, il Bangladesh e la denuncia disinformata
- Antonino Spoto
- 25 feb 2017
- Tempo di lettura: 3 min

Ci sono notizie che colpiscono, indignano, agitano le coscienze sensibili. Ma non dovrebbero.
Un’amica condivide un articolo intitolato: “Vi piace vestire Zara, Gap e H&M? Producono in Bangladesh, pagando i lavoratori 56 euro al mese”. La mia amica è una persona intelligente, colta e sensibile. È chiaro che è indignata. Contro quelle imprese famose, che sfruttano i poveri del terzo mondo. Probabilmente si sente in colpa. Smetterà di comprarne i vestiti e si augura che i suoi amici facciano altrettanto.
Ma l’indignazione è giustificata? Il boicottaggio sarà utile?
Al di là del titolo emotivo la notizia è questa: ad Ashulia in Bangladesh - che da tempo è diventato un centro manifatturiero del tessile - ci sono stati scioperi e manifestazioni con scontri e violenze. I lavoratori chiedono salari e condizioni di lavoro migliori. E tra i clienti delle manifatture di Ashulia ci sono le grandi marche occidentali, che hanno smesso di produrre in Occidente e appaltano la produzione in Bangladesh (come anche in India, Vietnam e altri paesi poveri).

È ovvio che la mia amica simpatizzi con i lavoratori in sciopero. È ovvio anche che si indigni alla notizia che il loro salario è di 56 euro mensili. È ovvio perfino che ce l’abbia con le marche occidentali. Ma si tratta di una reazione emotiva, non adeguatamente informata. Comprensibile da parte della mia amica. Molto meno da parte della stampa, che fa scandalismo superficiale, invece di fornire un quadro realistico e completo.
Certo, 56 euro al mese (60 USD) ci sembrano un salario da fame, indice di uno sfruttamento feroce. E in una prospettiva di giustizia distributiva ideale e assoluta probabilmente lo sono. Ma la prospettiva cambia se contestualizziamo. Il reddito pro-capite mensile in Bangladesh è di 120 USD; quindi un salario di 60 USD corrisponde al 50% del reddito medio. La proporzione non è dissimile in Italia, ove il salario medio di 1.650 USD corrisponde al 55% del reddito pro-capite (3.000 USD). Ancor più significativa è la comparazione con le aree rurali ove vive tre quarti della popolazione del Bangladesh e da cui proviene buona parte della forza lavoro impiegata nell'industria tessile. Qui il reddito pro-capite mensile è inferiore a 10 USD.
Come è accaduto in Europa molto tempo fa e in alcuni paesi del terzo mondo in anni recenti, in Bangladesh è in corso un processo di urbanizzazione, che vede la popolazione rurale spostarsi dalle campagne alla città per trovare un’occupazione meglio remunerata nell'industria (principalmente quella tessile). E questo processo sta gradualmente dando frutti. Il reddito pro-capite mensile è in forte crescita; è passato da 35 USD nel 2000 a 120 USD nel 2016.
Alla base di tale cambiamento ci sono le esportazioni in Occidente (che assorbono l’80% del prodotto dell’industria tessile). Ci sono le grandi marche occidentali, che - comprando dai paesi poveri - riescono a offrire in Occidente i capi di abbigliamento a prezzi incredibilmente bassi (molto più bassi di quelli che circolavano prima della globalizzazione, quando quei beni erano prodotti in Occidente).
In definitiva ci guadagnano tutti (o quasi). I consumatori occidentali – noi - che possiamo comprare a prezzi molto più convenienti. I poveri del Bangladesh, che possono gradualmente emanciparsi da una vita agricola di mera sussistenza e intraprendere un percorso di industrializzazione che - come già accaduto per altri paesi ex poveri – può condurli in futuro a sviluppare un'economia industriale e ottenere standard di vita meno distanti da quelli occidentali.

Il boicottaggio sarebbe un bene per i lavoratori dell’industria tessile del Bangladesh? Certamente no. Verrebbe meno uno dei fattori base della rapida crescita economica di quel paese. Verrebbe meno l’opportunità di un riscatto graduale dalle condizioni di povertà assoluta in cui versa gran parte della sua popolazione.
E gli scioperi, gli scontri per gli aumenti salariali? Sono il segno che il processo sta funzionando. Che - come già accaduto in Occidente – la crescita dell’economia e dell’occupazione sta dando ai lavoratori più forza contrattuale; la capacità di rivendicare una parte maggiore della prosperità crescente.
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